“Puoi contare su di me perché io posso contare su di te” (Count On Me, 2010 – Bruno Mars)
Peso: N.P
Ho lasciato le temperature glaciali del Piemonte, il sorriso e il calore di chi ho conosciuto su questo blog, di chi ha dato asilo politico alle mie chiappe, per la serie #SÌiusOrso. Ho lasciato quelle storie che sono partite dal wirelles di casa, fino a giungere alla stazione ferroviaria di Torino. Ho lasciato la generosità e la disponibilità di Tati, Cecilia, Erodaria, Margherita, Ali Di Velluto, Piera, Mela e Primula che è venuta da Cremona, e che su facebook ha scritto: “Il web non sempre è amico e gioca talora brutti scherzi, ma quando accade il contrario – e succede di frequente, basta volerlo – è una grande gioia, la festa della conferma che reale e virtuale hanno la stessa anima”. Le sue parole dicono tutto.
Ora torno nella mia tana, per prendermi una pausa e forse ritornare l’anno prossimo.
Siamo nel vivo di quel periodo dell’anno zuccheroso e calorico come frutta di marzapane, come i messaggi dentro i Baci Perugina, come certe frasi diabetiche su facebook. Quel periodo dell’anno in cui tutto si ferma, anche la sofferenza che auguri al tuo vicino di casa, al tuo capo o al tuo nullafacente collega, la rimandi al 27 dicembre, quando sugli scaffali dei supermercati cominciano ad apparire le maschere di carnevale per ricordarti la prossima festività in arrivo, perché il Natale non va sporcato con i cattivi pensieri. È peccato. Siamo nel periodo di quell’anno che a me sta un po’ sulle palle.
Il Natale del passato è così diverso da quello del presente. Ricordo che da piccolo sotto l’albero scartavo regali, i giochi che sarebbero dovuti durare mesi, se non anni, e non giorni, come succede ora nel frenetico acquisto del black Friday o del fuck Sunday! Oggi il mio Natale è scartare le medicine che devo dare a mia madre, mentre lei non sa neanche cos’è più il Natale.
Ricordo che quando ero piccolo la cosa più divertente era costruire il presepe, che poi spesso era talmente complicato, che nella maggior parte dei casi lo smontavamo a Pasqua, ma solo perché mia madre si vergognava a pregare la resurrezione, mentre in casa c’era ancora il bambinello nella culla. Poi con gli anni, l’età, lo spazio, la spending review, l’involuzione della fede, il presepe è diventato sempre più piccolo, fino a diventare una microscopica casetta, con la Madonna, San Giuseppe e Gesù Bambino. Rigorosamente già nato l’8 dicembre!
Prima a Natale giocavamo con cugini, amici, genitori, tutti davanti alla tombola, con un bottino da due lire e bucce di mandarino o legumi secchi per coprire le caselle. Adesso invece è un terno a lotto sapere se qualcuno ci sarà a pranzo. Il Natale era magia, ma anche contraddizione, soprattutto quando dovevamo pregare affinché nessun bambino morisse di fame, mentre gli adulti buttavano panettoni e cibo avanzato nell’immondizia.
I Natali passati per me erano quelle stelle filanti luminose che accendevamo nel tardo pomeriggio giù in cortile, con quella sensazione che loro luce potesse cancellare il degrado del quartiere. Erano quei petardi, che già dai primi di dicembre, facevamo scoppiare nelle bottiglie vuote di gassosa. Era quell’atmosfera da trucido Far West che la nostra innocenza non poteva mettere a fuoco. Da piccolo il Natale era quel posto dove le preoccupazioni le nascondevo sotto l’albero, fra le palle, fra gli addobbi o nella pagliuzza del presepe, fra il calore del bue e dell’asinello.
Non riesco a capire se oggi il Natale è più triste perché non è più quello di quand’ero bambino o forse perché mi sono semplicemente imbastardito crescendo. Il mio Natale è cambiato, forse perché è cambiata la mia vita o forse l’ho cambiata io con i miei errori, i miei percorsi.
Resta il fatto che negli anni, sotto l’albero, non ho più trovato i regali che da piccolo mi rendevano felice.
Dopo aver disfatto la valigia, ho ripensato al mio anno passato e a quell’eterno bilancio che faccio quando si giunge alla conclusione, a quei dolori nella colonna dei costi, a quegli abbracci che sanno di ricavi, e a quei sogni che, come eterne rimanenze, restano sempre lì, senza mai potersi esprimere liberamente al di fuori del bilancio annuale.
Ho cominciato a scrivere il mio post per lunedì, a sistemare gli armadi, i cassetti, a fare la lavatrice, a rispondere a whatsapp, alle telefonate dei miei amici. Ho cercato dentro i libri, quelle parole, quelle storie che mi portano altrove, sperando anch’io un giorno di vivere una storia da romanzo. Ho ritrovato una vecchia carta d’identità del 2006, e in quella foto ho visto più capelli, meno rughe, meno grasso, forse più speranza e incoscienza, e tutti quei “se, forse, magari, chissà, probabilmente, eventualmente”, messi lì, uno dietro l’altro nel mio sguardo, dove m’interrogavo sul domani.
Ma non ho trovato nulla che mi abbia un po’ tranquillizzato. Qualcosa che placasse la mia insofferenza nei confronti di questa festività sempre più vicina, così diversa da quella che ho sempre vissuto da bambino. Questa festività dove non troverò mai più quei regali che vorrei sotto l’albero.
Allora ho cominciato a cercare dentro al frigo, dove c’è quel cibo sano ed insano, che consola per un attimo, che mi fa effetto fisarmonica, con quella voglia di riempirmi, anche quando non ho fame, e sperare così di esplodere, per far uscire finalmente tutte quelle parole che non riesco mai a tirare fuori a voce, che sono incastrate tra l’esofago e l’intestino. Ma è una sensazione talmente breve, che non mi appaga mai.
E allora ho chiuso lo sportello e ho fissato le foto.
Il matrimonio degli amici; le nipoti e i figliocci che crescono; il brindisi l’ultimo dell’anno, con lo spumante comprato al discount, che ci faceva cagare, ma tanto contava solo stare assieme; il volto mai dimenticato di chi non c’è più, di chi non ha sconfitto la malattia, ma che è ancora “con me”; il ron-ron del mio gatto, quando la notte occupava un po’ di spazio nel mio letto, troppo grande per una persona sola; le parole di Ovidio; le calamite e quell’innocente illusione di credere di possedere po’ d’arte del mondo; la cartolina arrivata da quel lontano continente, intrisa di inchiostro e parole semplici; l’ultimo sorriso di mia madre; i selfie con le risate scroscianti di tutti i miei amici, alla faccia di tutto, anche dei denti storti. E per una strana magia natalizia, i regali che per anni ho cercato sotto l’albero, li ho trovati lì, tutti sul mio frigo.
Grazie a chi c’è. Grazie a chi c’è stato, ma anche a chi non c’è stato, ma il mio più grande grazie va a chi ci sarà. Buone feste a tutti. Ci si sente l’anno prossimo. Forse. Chissà.